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Ferita-feritoia




Questa espressione era solito utilizzarla il professor Aldo Carotenuto durante le sue lezioni all'università "La Sapienza" di Roma.

Le ferite che ci sono state inferte, le ferite di cui soffriamo, sono anche delle feritoie attraverso le quali possiamo scorgere ed entrare in contatto col dolore altrui.
Il dolore è la nostra fragilità, ma la nostra fragilità è pure la nostra ricchezza. Attraverso il dolore che proviamo possiamo comprendere il dolore altrui. Chi soffoca e si allontana dalla propria sofferenza non ha gli strumenti per avvicinarsi alla sofferenza degli altri.

La sofferenza per un abbandono o per una violenza subita ci piegano, ci schiacciano, ci avviliscono. Questa sofferenza può condurci a gesti estremi e autodistruttivi. Oppure può aprirci all'incontro e alla trasformazione. Il dolore è il punto più alto su entrambi i fronti, o se si vuole il punto più alto e più basso del nostro cammino. Nel massimo dolore si nasconde il massimo potenziale. Chi chiude la propria ferita, chi smette di sanguinare, chi si difende e nega la sua condizione di fragilità non potrà mai vedere e sostenere la sofferenza di chi gli è vicino. La ferita è la feritoia dal la quale possiamo sbirciare l'animo di chi ci è di fronte. Oltre le apparenze, oltre le maschere c'è l'anima del vicino. Oltre i simboli o le disgrazie vi è l'uomo e la donna. Possiamo intercettare la sofferenza dell'altro solo se non perdiamo contatto con la nostra sofferenza. Se perdiamo noi stessi perdiamo l'altro. Se neghiamo il nostro dolore neghiamo quello altrui.


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