psicoanalisi



PSICOANALISI (psychoanalysis; Psychoanalyse; psychanalyse; psicoanálisis). – La psicoanalisi, nel suo complesso di dottrine psicologiche generali e nel suo significato di tecnica esplorativa e psicoterapeutica, è opera di Sigmund Freud. Attorno ad essa si sono impegnati una schiera di ricercatori, alcuni se ne sono staccati polemicamente già al tempo di Freud, per formare scuole altrimenti denominate (segnatamente la psicologia individuale con Adler, e la psicologia analitica con Jung); altri, intendendo porsi in qualche modo nel solco del pensiero freudiano, hanno contribuito a darle l’aspetto successivo. Passato oltre un secolo dai suoi inizi, la psicoanalisi esprime una complessa tradizione di studi, con istituti suoi propri, che vanno continuamente sviluppando tanto la pratica e la teoria del procedimento tecnico, quanto il volume dei contributi scientifici nel campo della psicopatologia e in quello più vasto della scienza dell’uomo.

SOMMARIO: I. Le origini della psicoanalisi. - II. La concezione dinamica della vita psichica. - III. La teoria freudiana delle pulsioni. - IV. L’io e il problema dell’angoscia. - V. La terapia psicoanalitica. - VI. Scuole e orientamenti dopo Freud.

I. LE ORIGINI DELLA PSICOANALISI. – Nonostante la psicoanalisi abbia assunto nello sviluppo della psicologia moderna un carattere rivoluzionario, che Freud stesso paragona al passaggio dal sistema tolemaico al sistema copernicano per lo spostamento nell’inconscio del centro di gravità della vita psichica, essa non è senza legami con le correnti di idee che l’hanno preceduta. Si deve soprattutto a Breuer, a Hippolyte Bernheim, a Charcot e a Janet l’aver preparato il terreno da cui l’opera di Freud è germinata. La psichiatria della seconda metà del XIX secolo, da cui Freud ha preso le mosse, aveva per lo più un carattere nosografico classificatorio, in senso puramente descrittivo. Il problema eziologico era dominato dal concetto della costituzione degenerativa, appoggiandosi all’autorità di Kraepelin, per cui il disturbo psichico era esclusivamente considerato come il risultato di un ipotetico disturbo cerebrale. La mentalità medica, imbevuta del concetto cartesiano di separazione tra materia e spirito, era incapace di porsi di fronte all’uomo come unità psicosomatica, così che il disturbo psichico veniva considerato un epifenomeno secondario di disturbi organici. Furono soprattutto i fenomeni legati all’ipnosi, che avevano attirato l’attenzione dei medici a partire dall’epoca di Mesmer, a incanalare la ricerca in una direzione nuova. Charcot, che faceva uso dell’ipnosi per togliere o indurre sintomi negli isterici, non approfondì il problema che lo stesso fenomeno ipnotico presentava. Egli riteneva l’ipnosi prerogativa dei malati di nervi, a causa di un deficitario «terreno morboso» nel cui concetto affiora la teoria degenerativa, fiorita in Francia con Bénédict-Auguste Morel. Gli esperimenti di Bernheim, che Freud andò personalmente a osservare a Nancy, dimostrarono che l’ipnosi non è che una forma particolare di suggestione e come tale, quindi, un fenomeno psicologico cui sono suscettibili anche persone sane. Se si poteva indurre con l’ipnosi un sintomo morboso implicante, p. es., un’alterazione nel campo della motilità, nel campo percettivo o nella sfera del giudizio in persone normali, veniva dimostrato che non era necessaria una lesione organica per il verificarsi dei disturbi psichici. A fronte di tale movimento di idee nel campo medico, la psicologia non era ancora riuscita ad acquisire una sua autonomia e originalità di impostazione, oscillando da un lato verso la fisiologia e dall’altro verso la filosofia. Fechner fu l’unico psicologo che influenzò nettamente il pensiero di Freud con il principio di costanza (poi «omeostasi» in Cannon), che è alla base della concezione energetica ricorrente in tante teorie psicoanalitiche. Con queste premesse alle spalle Freud si incamminò, medico di formazione organicista e sperimentalista, nel campo vasto e polimorfo dei disturbi psichici. L’origine della psicoanalisi è connessa in modo stretto alla sua collaborazione con Breuer. Questi aveva adoperato l’ipnosi per riattivare in una malata (il famoso caso di Anna O.) esperienze penose dimenticate, in quanto aveva notato che il ricordo sotto ipnosi e il racconto di tali esperienze conduceva alla scomparsa, almeno temporanea, dei sintomi. Tale metodo di cura, detto «catartico», sanciva il principio generale che l’insorgenza del disturbo psichico non era condizionata dall’esistenza della lesione organica, ma era dovuta al blocco dell’energia affettiva collegata a ricordi penosi dimenticati. Questa intuizione condivisa con Breuer costituì il punto di partenza della ricerca di Freud, per alcuni anni solitaria e contrastata, mentre Breuer la abbandonò per i riflessi sociali sgradevoli che il suo lavoro gli aveva procurato.

II. LA CONCEZIONE DINAMICA DELLA VITA PSICHICA. – I fatti messi in rilievo dal metodo catartico sollecitavano nuove concezioni della vita psichica. Di fronte al blocco delle energie affettive e al fatto che rimanevano inconsce le immagini ad esse connesse, Breuer formulò una spiegazione statica: il blocco dipendeva dal fatto che gli avvenimenti penosi erano stati vissuti in stato ipnoide; egli tuttavia non approfondiva la natura di tale stato, limitandosi a enunciare l’ipotesi di una doppia coscienza, quella normale e quella in stato ipnoide. La sua teoria ha un’indubbia analogia con quella del restringimento o indebolimento del campo della coscienza proposta negli stessi anni da Janet. Freud respinse queste teorie deficitarie, per avanzare invece una concezione dinamica del sintomo psichico, imperniata sul concetto di conflitto: il disturbo psichico non nasce perché manca alle funzioni psichiche una qualche energia, ma per l’urto tra energie opposte. La dinamica della formazione del sintomo nevrotico prende le mosse dal mondo dei desideri e delle pulsioni inconsce, a seguito del loro incontro con le istanze di controllo, le quali nell’essere umano diventano preponderanti nel corso dello sviluppo psichico. Le pulsioni vengono concepite come un ponte tra il corpo e la mente, tra il biologico e lo psicologico, in quanto spinte che nascono dal corpo e trovano espressione in contenuti mentali o rappresentazioni (Vorstellungen); pertanto, la psicoanalisi tradizionalmente ha fatto oggetto elettivo d’indagine la ricerca delle rappresentazioni inconsce (fantasmi), in quanto prodotti primari e rudimentali della vita pulsionale sul piano psichico. Dopo le prime elaborazioni nell’ambito della clinica delle nevrosi, il sogno divenne il terreno elettivo per l’esplorazione dei contenuti inconsci. Con l’Interpretazione dei sogni (Die Traumdeutung [1899], in FGW, voll. II-III, tr. it. in OSF, vol. III) Freud ne portò la comprensione sul piano scientifico e allo stesso tempo forgiò un importante strumento per intendere il significato dei disturbi nevrotici. Il fatto che i contenuti inconsci acquistino maggior possibilità di trovare espressione durante il sonno, caratterizzato da una profonda riduzione del campo della coscienza, sembrerebbe a prima vista appoggiare la teoria della deficienza energetica e degli stati ipnoidi di Janet e Breuer. Ma ancora una volta lo studio della vita onirica servì a confermare la concezione dinamica della psiche; esso mise infatti in evidenza il meccanismo fondamentale della censura come forza antagonista al desiderio inconscio, nel quale Freud riconobbe il promotore del sogno. Il sogno manifesto apparve così come il risultato, in forma di compromesso, del conflitto tra desideri e repressione degli stessi, analogamente al modo con cui il conflitto dà luogo al sintomo nevrotico. Attraverso lo studio del sogno si rivelarono pure i meccanismi fondamentali con cui l’inconscio elabora i contenuti psichici, principalmente lo spostamento, la condensazione, il simbolismo; gli stessi meccanismi, oltre che nel sogno e nel sintomo nevrotico, sono operanti nei lapsus della vita quotidiana e nel motto di spirito (S. Freud, Zur Psychopathologie des Alltagslebens [1901], in FGW, vol. IV, tr. it. Psicopatologia della vita quotidiana, in OSF, vol. IV; Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten [1905], in FGW, vol. VI, tr. it. Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, in OSF, vol. V). Tutto ciò condusse al capovolgimento della concezione prevalente secondo cui la coscienza copre tutto lo psichico, sostituendola con l’altra, per cui lo psichico è per lo più estraneo alla coscienza; pertanto la psiche, in quanto inconscio, può esser presa in esame dalla scienza come fatto obiettivo, al pari di tutti gli altri fenomeni naturali. La coscienza risulta una qualità incidentale dello psichico, anche se conserva inalterata la sua importanza euristica, come l’unico «faro nella tenebra della psicologia del profondo» (Das Ich und das Es [1922], in FGW, vol. XIII, tr. it. L’Io e l’Es, in OSF, vol. IX, p. 481). Si determina così il chiasma epistemologico per cui ciò che è geneticamente secondario (la coscienza) diventa primo gnoseologicamente e viceversa per l’inconscio. Dopo i primi studi in gran parte legati all’osservazione fenomenica, Freud si apprestò a un’elaborazione speculativa volta a delineare i fondamenti teorici della psicoanalisi. Con il nome di metapsicologia, egli indicò quel complesso di dottrine con cui pose in rilievo strutture e processi basilari dell’apparato psichico, situati al di là del campo della coscienza. La metapsicologia si articola nello studio dei processi psichici dai punti di vista topico, dinamico ed economico. Il punto di vista topico rappresenta l’apparato psichico come un’entità spaziale, in cui localizzare i fenomeni psichici: i vari contenuti consci, preconsci e inconsci vengono immaginati come distribuiti in territori diversi della mente. Tale separazione tiene conto non soltanto della semplice qualità conscio-inconscio, ma anche, e soprattutto, del fatto che il processo psichico ha prerogative diverse e viene governato da leggi specifiche, secondo che si trovi nei diversi sistemi: conscio, preconscio, inconscio. Poiché la descrizione topica non consente un’esatta formulazione delle leggi che presiedono alla relazione tra i vari sistemi e poiché un contenuto psichico rimane inconscio o diviene conscio in funzione di forze che si oppongono o meno al passaggio da un sistema all’altro, Freud fu indotto a formulare una nuova ripartizione delle aree psichiche: a partire dal 1922 egli ipotizzò la distribuzione della psiche in tre istanze in lotta reciproca: l’es, l’io e super-io (ibi). Il punto di vista dinamico studia appunto le forze in gioco (pulsionali e difensive) provenienti da queste istanze e ne focalizza i decorsi e le vicende. L’es (sostantivazione nella lingua tedesca del pronome di terza persona di genere neutro), ribollente sede delle pulsioni, è l’istanza a cui si connettono i primi contenuti psichici: carichi energeticamente, sono governati dal principio del piacere-dispiacere e tendono a una scarica immediata dell’eccitazione, attraverso l’azione o nella semplice allucinazione (come accade nel sogno). Mentre l’es non ha contatti diretti con il mondo esterno, ma percepisce solo lo stato di tensione dato dai bisogni pulsionali, l’io, che in origine è una parte dell’es, si viene formando sotto le influenze del mondo esterno, attraverso gli apporti percettivi. L’io, cui appartiene il sistema della percezione e della coscienza, mira ad assoggettare al suo influsso strati sempre più ampi dell’es. Postosi come mediatore tra l’es e la realtà esterna, esso sviluppa tra la pulsione e la sua soddisfazione delle forme di difesa e di controllo, stabilendo la possibilità o meno di conseguire la soddisfazione. Mentre l’es è dominato dal principio del piacere, l’io segue il principio di realtà, onde conseguire sicurezza: se l’es ignora il pericolo, l’io fa dell’elaborazione del segnale di pericolo (angoscia) di fronte alla pulsione il perno di tutta la sua organizzazione difensiva. Il super-io è l’istanza psichica che coincide con la morale inconscia: provoca proibizioni indipendenti dalla morale cosciente dell’individuo e, nella concezione freudiana, si forma sia attraverso l’identificazione del bambino con l’immagine punitiva degli educatori, al tempo del tramonto del complesso edipico, sia trasformando in tendenze autopunitive le pulsioni aggressive dell’es. L’esistenza inconscia di un super-io particolarmente aggressivo rende problematica all’io la funzione di mediazione tra l’es e la realtà esterna (sadismo del superio e masochismo morale). Poiché la guarigione dalla nevrosi comporta la dissoluzione del super-io quale istanza morale arcaica e inadeguata, la pratica psicoanalitica ha fatto sorgere perplessità in sede morale. Gli psicoanalisti, a loro volta, osservano che i conflitti generati dal super-io sadico (specialmente evidenti nella nevrosi ossessiva e nella psicosi depressiva) possono rendere impossibile all’io l’integrazione razionale dei valori morali, per la quale è necessaria la dissoluzione delle istanze autopunitive arcaiche inconsce. Del resto, dal super-io si distingue l’ideale dell’io, che rappresenta l’insieme dei valori e degli ideali cui l’io si ispira, parte consci e parte inconsci, e pure essi assimilati tramite processi di identificazione. Il punto di vista economico intende studiare, nella concezione generale energetica dell’apparato psichico, le quantità di energia impiegate nei vari processi psichici. Esso considera, p. es., in termini quantitativi sia i processi di rimozione, concepiti come un impiego di controcariche che tendono a impedire il deflusso delle energie pulsionali, sia le energie trattenute dalla pulsione rimossa. La cura analitica, vista in termini economici, mira a mettere a disposizione dell’io una quantità confacente di energia psichica, sia agevolando il drenaggio, attraverso derivati leciti, all’energia connessa alle pulsioni inconsce, sia liberando l’energia che viene investita nelle controcariche difensive, così da togliere le difese non necessarie. Freud fornisce pure una lettura in termini energetici della genesi del pensiero conscio: a determinate rappresentazioni mentali si aggiunge una quantità di carica psichica a disposizione dell’io. In questo modo la «rappresentazione di cosa» inconscia può connettersi a una «rappresentazione di parola» preconscia, così che la prima può diventare pensiero cosciente.

III. LA TEORIA FREUDIANA DELLE PULSIONI. – Mentre la concezione topica e soprattutto quella economica dell’apparato psichico sono rimaste neglette nell’evoluzione del pensiero psicoanalitico, la concezione dinamica si è rivelata la più feconda sia nell’attività clinica, sia nello studio delle leggi generali della psiche. All’insegna della stessa concezione sono sorte le indagini sullo sviluppo affettivo del bambino, che hanno portato a una rivoluzione delle vedute in merito, anche solo per aver affermato l’esistenza di un’articolata sessualità infantile (Drei Abhandlungen zur Sexualtheorie [1905], in FGW, vol. V, tr. it. Tre saggi sulla teoria sessuale, in OSF, vol. IV). L’epoca maggiormente produttiva di fantasmi inconsci abbraccia i primi cinque anni di età. Si dà il nome di zone erogene a quelle parti del corpo che, durante lo sviluppo biopsichico, rappresentano punti di focalizzazione delle pulsioni e della correlata attività fantasmatica. Le zone erogene segnano le varie tappe dell’evoluzione delle pulsioni: la fase orale, la fase anale, la fase genitale. Durante la prevalenza della fase orale i contenuti dei fantasmi tendono a costruirsi su dati percettivi rudimentali (gustativi, olfattivi, visivi, tattili e specialmente cenestesici) che accompagnano l’instaurarsi di una tensione intensamente penosa (fame) in assenza di oggetto e il suo placarsi nello stabilirsi di un rapporto con un oggetto parziale (seno), che viene introdotto al di dentro (suzione), a cui segue la scomparsa dell’oggetto (sonno dopo la poppata). L’analisi dei derivati preconsci di tali fantasmi primari e naturalmente preverbali rileva che il mondo fantasmatico orale inconscio è popolato da rappresentazioni che elaborano le esperienze sensoriali e cenestesiche in simboli arcaici relativi all’introdurre o essere introdotti, divorare o essere divorati, comparire o scomparire di oggetti ecc., cui si accompagnano emozioni euforiche o disforiche intensissime, drammatizzate in simboli di oggetti buoni o cattivi. Nella fase anale l’incontro della pulsione anale con l’educazione al controllo degli sfinteri assume particolare importanza nel configurare i contenuti dell’esperienza del bambino in rapporto con l’ambiente. Stimolato da valutazioni di approvazione o di condanna circa le modalità di espletamento della funzione evacuatoria, il bambino vede esprimersi in modo clamoroso una fondamentale esigenza eticoestetica dell’uomo civile. I fantasmi inconsci vengono ora elaborati in rapporto ai simboli suscitati dal trattenere o espellere, tenere per sé o concedere, sentirsi sottratto o sottrarre qualcosa che è dentro di sé, cioè che fa parte dell’io corporeo. Tali fantasmi acquistano caratteri buoni o cattivi, a seguito delle sensazioni ed emozioni gradevoli o sgradevoli suscitate nel bambino dall’interno del corpo o dall’esterno, in funzione delle modalità di espletamento della defecazione e dell’atteggiamento dei genitori. Nella fase genitale, quando il patrimonio di esperienze percettive e affettive del bambino si è arricchito (3-6 anni) fino alla possibilità di cominciare a intuire più chiaramente i rapporti tra gli oggetti che lo circondano (specie i genitori), sotto l’incalzare di esigenze pulsionali più complete i fantasmi inconsci elaborano in termini simbolici il rapporto tra gli oggetti che dominano l’atmosfera familiare. In questo periodo, dietro la spinta di un relativo maturare della tensione fallica, vengono alla ribalta i desideri genitali e di procreazione nelle loro componenti erotiche e aggressive, in rapporto alla conquista di un oggetto (madre per il maschietto e padre per la bambina) e alle vicende particolarmente penose per il bambino di dover lottare contro un rivale onnipotente e per giunta intensamente amato (padre per il maschietto e madre per la bambina). La costellazione fantasmatica genitale, che comprende il vario atteggiarsi delle componenti erotiche e aggressive nei rapporti fantasticati o esperiti fra i genitori e nelle tendenze di partecipazione del bambino, è nota sotto il nome di complesso edipico. Nelle vicende di Edipo, eroe del mito greco, la tragedia dà espressione poetica e simbolica agli impulsi e alle angosce della scelta amorosa e delle rivalità genitali infantili. Le angosce della fase genitale hanno un’importanza predominante nello sviluppo delle nevrosi e sono note sotto il nome di complesso di castrazione. Anche altre zone erogene possono creare contenuti fantasmatici inconsci. Basterà accennare alle zone cutanea e muscolare, importanti per l’elaborazione di fantasie sadomasochistiche, e alla zona erogena visiva per le fantasie voyeuristiche ed esibizionistiche. Le indagini relative alle varie pulsioni che si manifestano nel corso dello sviluppo portarono alla necessità di formulare una dottrina generale delle pulsioni, che si inserisse nella visione complessiva della vita psichica. In un primo tempo il conflitto psichico, pilastro di tutta la concezione psicoanalitica, venne concepito da Freud, dal punto di vista economico, come una lotta tra la libido (l’energia propria delle pulsioni sessuali) e l’energia propria delle pulsioni di autoconservazione, appannaggio dell’io. Con la pubblicazione del saggio sul narcisismo (Zur Einführung des Narzissmus [1914], in FGW, vol. X, tr. it. Introduzione al narcisismo, in OSF, vol. VII) Freud introdusse il concetto di libido dell’io. L’io in tal modo non poteva più essere un’istanza opposta alla libido, in quanto era esso stesso oggetto di investimento libidico. Con l’opera Jenseits des Lustprinzips (1920; in FGW, vol. XIII, tr. it. Al di là del principio di piacere, in OSF, vol. IX) il conflitto psichico, che era sempre stato formulato in termini di opposizione tra pulsioni e proibizioni dell’ambiente interiorizzate, è spostato in seno alla stessa vita biologica, con l’enunciazione del dualismo di pulsioni di vita, che vengono ora a comprendere sia gli impulsi sessuali sia le pulsioni di autoconservazione, e pulsioni di morte, che implicano l’esistenza nell’organismo vivente di una tendenza primaria all’autodistruttività. Freud formulò l’ipotesi di una spinta endogena alla morte – invero presto contestatagli da non pochi seguaci – partendo da dati biologici, che implicano nell’essere vivente una continua creazione e distruzione di cellule nell’organismo attraverso le fasi anabolica e catabolica del metabolismo, e ritenendo inoltre che la «coazione a ripetere», scoperta in precedenza, fosse un carattere generale della vita psichica e biologica, quale espressione del principio di costanza. Secondo questo principio, infatti, l’organismo mira a conseguire il livello energetico più stabile; ma il livello più stabile è quello minimo, in cui cessa la vita. Dunque due fondamentali tendenze in opposizione sottendono i processi biologici, quella alla vita e quella alla morte, ed esse si esprimono sul piano psicologico appunto come pulsione di vita (o eros) e pulsione di morte. Il dualismo di Eros e Thanatos, caro ai poeti, fu così posto a spiegazione dei fenomeni psichici. Coperto dalle manifestazioni degli impulsi libidici, che tendono a creare organizzazioni della realtà sempre più complesse e armonizzate, le spinte alla morte si anniderebbero silenziose nella sostanza vivente, come tendenza a ritornare a una forma di esistenza inorganica. Sul piano propriamente psichico, la pulsione di morte si connette alla fenomenologia della pulsione aggressiva. Una frazione della pulsione di morte verrebbe deflessa all’esterno come aggressività, preservando il soggetto dalla distruzione. Il masochismo primario esprimerebbe la posizione iniziale autodistruttiva, mentre il masochismo secondario deriverebbe dall’introflessione sul soggetto della pulsione aggressiva, dapprima rivolta verso l’oggetto.

IV. L’IO E IL PROBLEMA DELL’ANGOSCIA. – Se l’es rappresenta le assillanti esigenze che il biologico presenta allo psichico, l’io è l’istanza psichica che assume su di sé la responsabilità dei conflitti che incombono all’uomo per il fatto di essersi allontanato dalla vita biologica per costruire la civiltà. Debole e mal configurato agli inizi dell’evoluzione psichica, esso assume importanza crescente quale organizzazione di controllo nei riguardi della realtà interna ed esterna. Nell’Abriss der Psychoanalyse (1938; in FGW, vol. XVII, tr. it. Compendio di psicoanalisi in OSF, vol. XI), la sintesi più matura del suo pensiero, Freud così delinea le funzioni fondamentali dell’io: «La sua prestazione costruttiva consiste nell’interpolare, fra la pretesa pulsionale e l’azione di soddisfacimento, l’attività di pensiero; quest’ultima [...] si sforza, procedendo per prove ed errori, di indovinare le conseguenze delle iniziative progettate. L’io decide in questo modo se il tentativo di raggiungere il soddisfacimento debba essere compiuto o rinviato, oppure se la pretesa avanzata dalla pulsione debba essere repressa del tutto in quanto pericolosa [...]. Così come l’es è esclusivamente orientato al conseguimento del piacere, l’io è dominato da problemi di sicurezza» (ibi, p. 626). Il cardine di tutta l’attività organizzativa e difensiva dell’io è costituito dalla sua capacità di impiegare l’angoscia come segnale di allarme di fronte al pericolo, allo scopo di promuovere difese adeguate. L’angoscia primaria, che Freud chiama «angoscia automatica» (patita dall’io come il risultato di uno stato di eccitamento incontrollabile, proveniente da stimolazioni traumatiche esterne o interne, il cui prototipo può essere fatto risalire al trauma della nascita), viene in seguito parzialmente riattivata dall’io come anticipazione di una minaccia possibile; il che implica la mobilitazione di una sempre più consistente organizzazione difensiva. In casi patologici l’evocazione del pericolo possibile si trasforma in pericolo reale, sommergendo così l’io, che regredisce alla situazione traumatica primaria (Hemmung, Symptom und Angst [1925], in FGW, vol. XIV, tr. it. Inibizione, sintomo e angoscia, in OSF, vol. X). L’angoscia costituisce pertanto il cuore del problema psicologico, e gran parte dei comportamenti umani sono in definitiva riconducibili a modalità più o meno riuscite di rassicurazione contro l’angoscia. La frequenza della nevrosi nella nostra epoca testimonia che l’io dell’uomo civile, che ha così brillantemente lottato per il dominio della natura, si trova in una condizione di maggior debolezza di fronte ai pericoli interni posti dall’incontrollabilità delle pulsioni. Sul piano genetico, ciò trova la sua condizione nel fatto che, quando nell’infanzia si vengono formando le strutture fondamentali della psiche, l’io è debole e appena abbozzato, mentre l’es urge con tutta la sua violenza primitiva, che conduce con facilità a stati di «allagamento» di tutto l’apparato psichico. Ciò spiega almeno in parte il fenomeno dell’angoscia (come paura enorme e paradossale che l’uomo ha di rivivere la primitiva condizione di impotenza di fronte ai pericoli nascosti in sé, a onta del suo dominio sulla natura) e il fenomeno della nevrosi come mal riuscito tentativo di farvi fronte. II contenuto dell’angoscia sul terreno clinico è riconducibile a una drammatizzazione simbolica di pericoli soverchianti in relazione all’eccitazione pulsionale infantile. Le ricerche sulla sessualità infantile e il riscontro della paura della castrazione in termini di angoscia nella generalità degli individui sottoposti a trattamento analitico avevano indotto Freud a ritenere il «complesso di castrazione» come cruciale nel fornire il contenuto fantasmatico inconscio per l’elaborazione da parte dell’io dell’angoscia come segnale di pericolo. Sulla traccia dello stesso Freud, le ricerche successive hanno valorizzato nella genesi dell’angoscia fantasmi relativi alla perdita dell’amore o dell’oggetto buono protettivo, la cui funzione è essenziale e inderogabile per compensare la fondamentale inadeguatezza dell’io del bambino di fronte a qualsiasi pericolo interno o esterno. Di fronte a tali minacce elaborate in termini di angosce primarie, l’io mette progressivamente in moto i suoi meccanismi di difesa. Questi all’inizio consistono specialmente in processi di identificazione – con cui, sulla base di un meccanismo di incorporazione, l’io sente come proprie delle qualità buone, protettive dell’oggetto – e di proiezione – con cui, sulla base di un meccanismo di espulsione, l’io cerca di distanziare da sé delle parti pericolose dell’es. Allo stesso scopo l’io mette in moto il meccanismo di rimozione con il quale, per il tramite di controcariche, mantiene inconsce e quindi «estranee» determinate rappresentazioni pulsionali temute. Con modalità diverse convergono verso lo stesso scopo gli altri meccanismi di difesa. Ogni comportamento umano può assumere, dal punto di vista psicoanalitico, oltre al carattere di soddisfazione pulsionale (spesso con spostamento di oggetto e di meta), una funzione rassicurante contro angosce inconsce. Per esempio, la ricerca scientifica può soddisfare con spostamento di oggetto la curiosità sessuale infantile scoprendo cose nascoste, e nello stesso tempo può servire da rassicurazione contro la paura dell’ignoto. Così la tendenza al risparmio può soddisfare il desiderio di conservare in sé (o per se stessi) determinati oggetti pregiati, come spostamento sul danaro di impulsi connessi alla fase anale, e nello stesso tempo può svolgere una funzione di rassicurazione contro un’intensa angoscia relativa alla perdita di oggetti importanti della vita affettiva infantile. Nelle situazioni normali i due processi di soddisfazione e di difesa riescono ad armonizzarsi. Nella nevrosi l’equilibrio tra pulsione e difesa viene rotto; tende allora a rinnovarsi la lotta tra impulso e difesa senza possibilità di composizione, o componendo il conflitto con un dispendio eccessivo di energie e conseguente danno nell’economia psichica globale. La struttura caratteriale stessa può assumere un prevalente aspetto difensivo e i tratti del carattere in genere condensano modalità di soddisfazione assieme ad adattamenti difensivi; tali tratti sono esplorabili geneticamente in funzione di pericoli interni o esterni che l’io si è trovato a fronteggiare durante l’età evolutiva. Nell’evoluzione dell’organizzazione difensiva contro i pericoli dell’es si viene formando il super-io come istanza repressiva, che assume una propria autonomia e talvolta si impone all’io stesso con i caratteri di incoercibilità propri dell’es. Nella formulazione freudiana del super-io, figure genitoriali minacciose sono diventate parte integrante del mondo interno; esso infatti «osserva l’io, gli impartisce degli ordini, lo orienta e lo minaccia con punizioni, esattamente come i genitori di cui ha preso il posto» (Abriss..., tr. it. cit., p. 632). Nella persona normale è data una relativa armonizzazione tra la moralità automatica del super-io e la moralità meditata e conscia dell’io. In casi patologici il super-io impone all’io una pseudomoralità rigida e assurda, basata sull’evocazione di atroci sensi di colpa anche solo per desideri inconsci (da questo punto di vista l’inconscio è più immorale di quanto si creda, ma allo stesso tempo più morale). L’io è così costretto a far uso di meccanismi di difesa pure nei riguardi del super-io, mobilitando angosce come già nei riguardi dell’es. Secondo Freud il super-io è «l’erede del complesso edipico e si insedia solo in seguito alla liquidazione di quest’ultimo. La sua eccessiva severità non segue perciò un modello reale, ma corrisponde piuttosto all’intensità con cui il soggetto ha dovuto difendersi dalla tentazione del complesso edipico» (ibi, p. 633). Volendo cogliere nel loro complesso i reciproci rapporti tra le varie istanze psichiche, si può dire che l’es e il super-io pongono all’io il difficile compito di armonizzare tra di loro delle tendenze contrastanti. L’attività dell’io è quindi essenzialmente una lotta più o meno fortunata contro la pazzia latente in noi: «Malattia dell’uomo, malato di se stesso: conseguenza di un divorzio violento dal passato animale» (F. Nietzsche, Genealogie der Moral, Leipzig 1887, tr. it. di F. Masini, Genealogia della morale, in F. Nietzsche, Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. XIV, Milano 1992).

V. LA TERAPIA PSICOANALITICA. – La psicoanalisi nella sua realtà vissuta è essenzialmente un procedimento terapeutico, o meglio, psicoterapeutico. I principi generali della tecnica psicoanalitica si ispirano al concetto generale del conflitto psichico. Poiché la nevrosi è il prodotto di una rottura di equilibrio tra pulsioni e difese (dovuta a un aumento incontenibile di tensione per inadeguato deflusso, con la creazione di formazioni di compromesso quali sono i sintomi morbosi), il compito della cura psicoanalitica è di ristabilire l’equilibrio perduto, in modo che sia possibile un deflusso adeguato, in armonia con leggi razionali e sociali di condotta. Poiché le difese eccessive sono messe in moto da intense angosce inconsce, il compito terapeutico essenziale è la risoluzione di queste angosce generatesi nella preistoria infantile della vita psichica, confrontandole con l’io razionale adulto che ne riconosce il carattere irreale. Tale scopo viene raggiunto demolendo le difese patologiche fino all’affiorare dei contenuti delle angosce patogene, che possono essere liquidate solo in quanto riattualizzate e confrontate con la parte normale dell’io adulto. La modalità esteriore della tecnica psicoanalitica consiste nel porre l’individuo in posizione sdraiata, stando il terapeuta dietro di lui e invitandolo a esprimere ogni cosa gli passi per la mente, senza preoccupazioni di giudizio da parte del terapeuta. Le libere associazioni hanno lo scopo di sospendere le difese coscienti dell’io, in modo da lasciar emergere i contenuti inconsci, spesso inattesi e insospettati. Complementare alla regola dell’associazione libera da parte del paziente è l’atteggiamento di attenzione fluttuante da parte del terapeuta. È abituale che durante l’esplorazione insorgano resistenze, la cui chiarificazione e soluzione è indispensabile per il superamento delle difese inconsce e la produzione sempre più proficua di derivati dei contenuti inconsci. Lo strumento essenziale della terapia analitica è costituito dall’analisi del transfert, nella quale si esprime una prerogativa della tecnica della psicoanalisi rispetto alle altre forme di psicoterapia. Il transfert – genialmente utilizzato da Freud dopo la conturbante scoperta che il paziente riproduceva su di lui moti di amore e di odio già vissuti soprattutto con le figure parentali – nel suo significato più vasto è un fenomeno generale e consiste nel fatto che ogni rapporto oggettuale implica sempre uno spostamento di parti di sé sugli oggetti sotto forma di investimenti pulsionali erotici o aggressivi. Una forma più specifica di transfert si ha quando l’oggetto investito di cariche pulsionali viene vissuto come se fosse il sostituto di oggetti della vita affettiva infantile, internalizzati e intrattenenti rapporti con l’io sotto forma di rapporti oggettuali inconsci. In tale caso nell’oggetto esterno vengono posti degli attributi già propri di oggetti infantili, ai quali l’individuo reagisce con impulsi positivi o negativi, come se fossero attributi dell’oggetto attuale. La vita affettiva adulta è sottesa in modo più o meno marcato da transfert che implicano la ripetizione nei rapporti affettivi adulti di modelli di comportamento infantile. Esempio tipico di tale situazione è l’innamoramento, in cui il rapporto oggettuale si attua nel trasferimento sull’oggetto di contenuti esclusivamente positivi vissuti nell’infanzia, come appartenenti a un oggetto intensamente idealizzato. Il transfert psicoanalitico, data la neutralità del terapeuta come oggetto investito, porta a estreme conseguenze il carattere di soggettività del transfert sia positivo sia negativo: la figura reale dell’analista può essere completamente cancellata, sovrapponendogli immagini e attributi di oggetti internalizzati durante le vicende affettive infantili. La guarigione, concepita in senso psicoanalitico come una maturazione della personalità, raggiunta attraverso il rafforzamento dell’io e l’integrazione di energie liberate dall’es, si attua principalmente nel mettere a confronto la parte dell’io normale con i modi di reazione arcaici rivissuti nel transfert, che vengono abbandonati dopo la liquidazione delle angosce che li rendevano necessari in modo coatto. Il trattamento analitico conduce così alla instaurazione di una nevrosi di transfert, la soluzione della quale costituisce il lavoro terapeutico fondamentale. Speciale attenzione è stata riservata ai problemi suscitati dalla valorizzazione del transfert negativo, come risultato di una maggiore comprensione degli impulsi aggressivi verso il terapeuta. Molto dibattuto è stato pure il problema del transfert nella psicoanalisi infantile. Secondo Anna Freud non si potrebbe parlare di transfert nei bambini, in quanto il processo di internalizzazione degli oggetti che vengono proiettati nel transfert è ancora in atto. Secondo Melanie Klein invece il transfert è un fenomeno generale che non fa eccezione nel trattamento psicoanalitico dei bambini.

VI. SCUOLE E ORIENTAMENTI DOPO FREUD. – La psicoanalisi dopo Freud ha dato luogo a un’amplissima e variegata fioritura di scuole, riviste, centri di formazione e ancor più numerose sono le correnti nell’ambito della filosofia, sociologia, antropologia, linguistica, critica letteraria, che ad essa si richiamano. L’ampiezza della fioritura è sostenuta principalmente dalla crescente domanda di cure psicoterapiche e, nonostante i limiti da più parti denunciati sul piano della teoria e su quello dei risultati della cura, sembra improbabile il tramonto di questa tradizione di ricerca, finché non sia data una cura senz’altro più efficace e un quadro teorico allo stesso tempo più convincente e più comprensivo. La varietà di teorizzazioni è da attribuirsi da un lato alle ambiguità e ai problemi lasciati aperti nell’impianto freudiano, dall’altro lato all’incontro con diverse sensibilità culturali, con gli sviluppi nelle discipline limitrofe, con la necessità, infine, di aprire la cura a patologie trascurate da Freud, come i disturbi infantili e le gravi psicosi dell’adulto. L’eterogeneità di scuole e orientamenti rende impossibile oggi delineare un «sistema» anche minimo di psicoanalisi. Se, come è stato affermato da più parti (M. Fornaro, Scuole di psicoanalisi. Ricerca storico-epistemologica sul pensiero di Hartmann, Klein e Lacan, Milano 1988; R.S. Wallerstein, One Psychoanalysis or Many?, in «International Journal of PsychoAnalysis», 69, 1988, pp. 5-21), occorre ormai parlare «delle» psicoanalisi al plurale, è perché le divergenze non vertono soltanto su temi settoriali, bensì concernono il modello di mente ovvero il paradigma soggiacente, oppure comportano la demolizione di qualcuno dei pilastri fondamentali dell’impianto freudiano, quali le nozioni di inconscio, di conflitto psichico (rimozione), di pulsione. Pertanto, al fine di stabilire quali orientamenti includere nella psicoanalisi, non si può a questo punto se non accreditare l’intenzione dei rispettivi esponenti di porsi nell’alveo della tradizione freudiana. Di essa è comunque rintracciabile un «filo rosso» nei riferimenti a una comune letteratura, nella koinè linguistica – sia pure intendendo poi diversamente gli stessi termini tecnici – e nel metodo clinico, in quanto vi si continua a far uso privilegiato della parola, a ritenere il terapeuta in qualche modo parte in causa del processo e non un osservatore esterno. Al fine di delineare un quadro delle maggiori svolte paradigmatiche dopo Freud, è opportuno ripercorrere alcune linee di storia della psicoanalisi, sulla falsariga delle grandi alternative concettuali ricorrenti (quali: intrapsichico vs. interpersonale; innato vs. ambientale; io vs. es; pulsionale vs. oggettuale o relazionale; psicologico vs. biologico, vs. sociologico; clinica vs. metapsicologia; conflitto vs. deficit; metodo clinico vs. metodo empirico; e nella clinica: insight vs. empatia; costruzione vs. ricostruzione; monopersonale vs. bipersonale). Negli anni quaranta e cinquanta del Novecento si assiste in Gran Bretagna allo scontro tra l’«ortodossia», rappresentata dalla figlia di Freud, Anna, e l’incipiente scuola di Melanie Klein. I temi della prima sono poi ripresi dalla psicologia psicoanalitica dell’io che, fondata da Heinz Hartmann, Ernest Kris e Rudolph Loewenstein, trova sviluppi negli USA. Le divergenze, al di là di temi settoriali come la teoria e la tecnica dell’analisi dei bambini o le prime fasi dello sviluppo (vedi l’Edipo precoce della Klein), discendono da una diversa calibratura del rapporto tra inconscio (es) e conscio (io): la concezione di una sfera dell’io autonoma dai conflitti pulsionali, radicata nella struttura biologica e filogenetica (Hartmann), si scontra con l’articolata enfasi sulle dinamiche inconsce del mondo intrapsichico (es), sulla vita fantasmatica come costitutiva della personalità (Klein). Anzi, proprio queste altre dinamiche segnerebbero l’avvio di un regolare processo di investimento simbolico della realtà esterna, la quale prende significato proprio a partire dal mondo interno (così in Fornari, Bion, Matte Blanco, tutti già allievi in qualche modo della Klein). Al contrario, la scuola hartmanniana, sottolineando i pericoli rappresentati da quello stesso mondo interno, da cui l’io ha da difendersi, focalizza il problematico adattamento all’ambiente. Del resto gli orientamenti nordamericani appaiono in generale caratterizzati da una maggiore sensibilità all’istanza ambientalista e realista, piuttosto che al mondo intrapsichico e fantasmatico. In ciò la psicologia dell’io si trova compagna di strada della corrente culturalista o neofreudiana. Per quest’ultima, pure fiorita negli USA, le relazioni interpersonali quali si esplicano nell’ambiente familiare (Harry Sullivan) – e dietro esso la società qualificata e criticata in senso economico-politico (Fromm) – intervengono direttamente nella costituzione della struttura psichica, mentre gli elementi innati sono ridotti al minimo. Ma, a differenza degli psicologi dell’io, i culturalisti avanzano la prima serrata critica al modello pulsionalistico freudiano, accusato di determinismo biologico, di meccanicismo, laddove i primi non disdegnano la ricerca di fondazioni neurofisiologiche della psicoanalisi. Gli anni sessanta e settanta vedono in Francia l’apoteosi della scuola di Lacan, dove i temi dell’effettività dell’inconscio e del primato del linguaggio vengono in primo piano. Facendo leva su un modello di mente chiaramente ispirato alla linguistica strutturalista, essa enfatizza della psicoanalisi il carattere di cura attraverso le parole e inoltre legge le formazioni dell’inconscio, seguendo suggerimenti dello stesso Freud, come figure retoriche, caratterizzate da meccanismi di condensazione (equiparata alla metafora) e di spostamento (metonimia). Essa pertanto, oltre a porre in secondo piano gli aspetti biologici dello sviluppo, porta una serrata critica alla nozione di io autonomo, enfatizzando i luoghi in cui Freud descrive l’io, sortito da investimenti narcisistici, come il giullare che si illude di governare l’individuo. Qui è davvero «l’inconscio che parla»; di conseguenza, alla tesi dell’adattamento come misura della salute, i lacaniani oppongono la realtà del desiderio inconscio, come potenzialmente eversivo. Intanto, a partire dagli anni cinquanta, nella controversia tra kleiniani e ortodossi si profila, ancora in ambiente inglese, una corrente in certo modo intermedia, gli «indipendenti», che annovera nomi di primo piano, fecondi di risultati, come Winnicott, Balint. Al di là della nebulosa di posizioni, entro questa corrente va rilevata una comune sensibilità: l’avversione al pulsionalismo, l’attenzione alle fasi preedipiche e infine la centralità della nozione di relazioni oggettuali (preceduti dal kleiniano Ronald Fairbairn e altri), intese ora in maniera più realistica (l’effettivo comportamento della madre), ora più fantasmatica (i vissuti relazionali del bambino). Di particolare rilievo è qui la figura materna: con le sue attitudini più o meno adeguate, essa è ritenuta decisiva per ogni successivo sviluppo dell’essere umano, sottovalutando però spesso la funzione del padre e della triangolazione edipica. Nella stessa epoca e temperie è da porsi pure la ricerca di Bowlby, che studia in particolare le modalità di «attaccamento» da parte del bambino a seguito per altro delle modalità di accudimento materno: ispirata a metodi e modelli etologici, la sua opera gode negli anni Novanta di nuovi riconoscimenti, specie tra quegli psicoanalisti che – al di là del classico metodo clinico – ambiscono a riscontri di tipo empirico e sperimentale. Gli anni settanta e ottanta vedono la crescita, a partire ancora dagli USA, della corrente della psicologia del sé, di cui Kohut, già formatosi nell’area della psicologia dell’io, è il maggiore esponente. Il nuovo paradigma concepisce la mente come essenzialmente unitaria, destinata a svilupparsi armoniosamente attorno a un nucleo centrale (o «sé nucleare», presente fin dagli albori della vita), grazie al duraturo e scambievole rapporto «empatico» o di «sano narcisismo» con figure di appoggio, a partire da quelle genitoriali. La «classica» visione conflittuale della psiche, la cui unità è sempre precaria, viene pertanto sostituita da una visione deficitaria, laddove risulti perturbata la funzione di appoggio esercitata dalle figure parentali. Questo rinnovato interesse verso le obiettive carenze nel rapporto interpersonale precoce va di pari passo con la riabilitazione del peso dei traumi realmente subiti dal bambino, alla quale si è assistito negli anni ottanta e novanta. Infine, nell’ambito della cura, la psicologia del sé comporta un’accentuazione del ruolo dell’empatia – in luogo della mera interpretazione –, intesa come atteggiamento di benevolo sostegno da parte del terapeuta, che surroga le figure parentali a suo tempo manchevoli. In tal modo rivivono, mutatis mutandis, le proposte già di Ferenczi, negli anni trenta, per un atteggiamento del terapeuta caratterizzato da affettuosità di tipo materno, o di Franz Alexander, negli anni quaranta, per un’«esperienza emozionale correttiva». Circa il modo di concepire la relazione terapeutica non piccole sono le variazione intervenute negli ultimi decenni, rilevanti anche perché implicano concezioni alternative della mente. A partire da autori come Bion (che sostiene un modello «gruppale» di mente, e già prima un modello del gruppo come sorta di mente collettiva) si insiste variamente sul carattere strutturalmente relazionale del rapporto terapeutico, o bipersonale, o di campo (Madaleine Baranger, Willy Baranger). Inoltre si perora la sistematica utilizzazione delle emozioni che il paziente suscita nel terapeuta (il cosiddetto controtransfert), laddove l’impianto «classico» al più concedeva, a un terapeuta monocraticamente inteso, l’utilizzazione del transfert su di lui da parte del paziente. Si arriva così, infine, alla recentissima corrente intersoggettivista (USA) – ultima propaggine della linea interpersonale – che da una parte insiste sul cosiddetto hic et nunc della seduta analitica, dall’altra preconizza un rapporto di scambio pressoché paritetico tra paziente e terapeuta, all’interno di una comune ricerca (Robert Storolow e George Atwood). Lo straordinario sviluppo delle neuroscienze nella seconda metà del Novecento e il riconoscimento crescente dell’obsolescenza della nozione freudiana di apparato psichico, in quanto poggiante su un modello neurofisiologico fisicalista ottocentesco, ha portato a due opposte linee di soluzione – che ripropongono per altro il dilemma già avanzato da Ricoeur tra interpretazione (clinica) e forza (metapsicologia). La prima linea si è espressa a partire dagli anni settanta nelle correnti ermeneutiche in seno alla stessa psicoanalisi, rappresentate da autori nordamericani come Roy Schafer e Donald Spence, e comunque da quanti, delusi dalle velleità fondazionali della metapsicologia (Merton Gill, George Klein), hanno finito col ricusarla, per insistere sul significato pragmatico dei concetti teorici. È una linea naturalmente aperta alle impostazioni narrativiste fiorite negli anni Novanta (dove la cura è intesa come «costruzione» di una buona narrativa, piuttosto che «ricostruzione» degli eventi psichici del soggetto); queste impostazioni per altro, mentre si accostano decisamente alle modalità delle scienze storico-ermeneutiche, trovano sponda nei recenti orientamenti culturali «post-moderni» (in quanto mirano a inficiare il carattere universale e oggettivo della scienza in generale). La linea opposta, a fronte della crisi della metapsicologia, suggerisce che essa non va abbandonata, bensì occorre sostituire il modello metapsicologico e neurofisiologico freudiano con modelli tratti dai recenti sviluppi delle scienze cognitive (Wilma Bucci); oppure la metapsicologia va suffragata, per certi aspetti, con le acquisizioni in sede di neuroscienze. In particolare nell’opera dei britannici Karen Kaplan-Solms e Mark Solms – che inaugurano l’orientamento della «neuropsicoanalisi» – la neuropsicologia dinamica, nata dagli studi del grande russo Lurija, costituirebbe un terreno ideale sia per validare sul piano neuroscientifico parecchie tesi psicologiche della psicoanalisi (segnatamente la teoria del sogno e quella delle relazioni oggettuali), sia per quella fondazione neurobiologica che il Freud dell’Entwurf einer Psychologie (1895; in FGW, Nachtragsband, tr. it. Progetto di una psicologia, in OSF, vol. II) avrebbe abbandonato per mancanza, al tempo, degli strumenti teorici e dei dati sperimentali adeguati. Questi ricorrenti sforzi di legittimare le teorie della psicoanalisi attraverso metodi «obiettivi», cioè osservativi e sperimentali, hanno dato luogo a consistenti correnti di ricerca empirica anche nell’area della clinica (sono ricerche sviluppatesi anche a risposta delle aspre critiche rivolte alla psicoanalisi da epistemologi come Grünbaum). Da una parte è sorto un orientamento che intende sottoporre a verifica empirica le sedute psicoanalitiche con le più disparate metodiche, come la videoregistrazione di sedute (introdotta dal gruppo di ricerca all’università di Ulm guidato da Helmut Thomä), o come l’individuazione a opera di giudici esterni del cosiddetto «tema della relazione conflittuale centrale», al fine di vagliare il modello relazionale interiorizzato (Lester Luborsky). Dall’altra parte, sono fioriti studi di infant research, a partire dagli anni ottanta, dopo quelli pionieristici di Spitz. Si segnala a proposito il lavoro di Daniel Stern, che osserva con grande accuratezza le interazioni madrebambino nel primo anno di vita, rilevando l’istituirsi di sincronismi relazionali nei rapporti tra i due, tali che le risposte e le modalità materne concorrono direttamente alla formazione delle strutture mentali (il sé) del piccolo. L’interpersonale sottrae nuovamente spazio all’intrapsichico: dato l’approccio osservativo e sperimentale, è inevitabile che il mondo fantasmatico, supposto da tante analiste infantili, faccia un passo indietro. È un indirizzo che con l’opera successiva di Joseph Lichtenberg ha pure portato a rivedere profondamente la teoria pulsionale, nel senso di sostituirvi complessi e articolati «sistemi motivazionali», fatti a un tempo di spinte fisiologiche e dell’interiorizzazione di assetti relazionali.


Bibliografia

Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano 2006