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Due immagini



Due immagini mi inseguono da anni. Ogni tanto ricompaiono nella mia mente per ragioni che non conosco. La prima è l'ultima scena de Il nome della rosa diretto da Annaud del 1986. Mentre segue il maestro Guglielmo, Adso scorge gli occhi di lei, la ragazza senza nome, scampata al rogo e che lui aveva amato di nascosto qualche notte prima. Lei lo fissa, tremante, coperta di pochi stracci. Non parla, non dice nulla, lo fissa soltanto, lo chiama a sé. Negli occhi di lei c'è il sogno di quel giovane monaco, il desiderio di una giovane donna. Non una parola uscirà dalla sua bocca, non un sorriso si formerà sul suo volto. Ma è tutto lì, nella sua semplicità, nel silenzio di quella scena. Non serve altro per capire l'amore. Adso rallenta, si ferma, capisce la richiesta di lei, è confuso, inquieto, guarda le spalle del maestro allontanarsi, è indeciso, combattuto. La vita gli sta presentando un conto salato. Sa che deve scegliere ma non può farlo, è lacerato dall'indecisione, ma non può fare nulla. E' come se il suo destino fosse segnato. Il maestro lo chiama da un lato, l'amore lo chiama dall'altro. Sappiamo quale è stata la scelta di Adso, sappiamo come egli abbia preferito il sapere al piacere e alla tenerezza. Ma sappiamo pure quante volte di notte egli l'abbia pensata nel corso della sua lunga vita, di quante volte l'abbia rivista lì in quell'istante, sul sentiero, ancora supplicante. E quante volte l'abbia segretamente abbracciata. La sua vita si è fermata per sempre su quel piccolo sentiero. Anche se è proseguita per altri versi e l'abbia condotto a fare tante esperienze in tutti i luoghi d'Europa, una parte di lui è rimasta per sempre legata a quella scelta, a quegli occhi supplicanti, a tutto il mondo a cui ha scelto di rinunciare. Ha perduto la ragazza senza nome, ha perduto la rosa, non l'ha mai più rivista e ha votato la vita allo studio. Eppure quegli occhi lo inseguono, come inseguono me. Perché in un gesto, in uno sguardo, nel palmo di una mano che si apre si nasconde qualcosa di oscuro e di terribile, di semplice e di bellissimo.


La seconda scena è invece quella che chiude il film Blade Runner di Ridley Scott del 1982. Rick sa che Rachael è un replicante. Lei pure lo sa perché è stato lui a dirglielo, a sbatteglierlo in faccia senza troppi complimenti. Lei sa di non essere mai nata ma di essere stata creata, sa che i suoi ricordi sono impiantati, sono ricordi altrui, ricordi di molti altri replicanti fatti in serie. Entrambi sanno che lei ha una scadenza, che i suoi circuiti un giorno, molto presto, si spegneranno. Che non è giusto né umano ma è così, non c'è niente da fare. Eppure lei è lì di fronte a lui, ha gli occhi lucidi, non parla, non sa cosa provare e non sa cosa dire. Non sa a cosa ha diritto una come lei. Lei vive il dramma di una persona in tutto e per tutto umana ma che non lo è. Lui sa che non dovrebbe provare ciò che prova, ma non può fare finta di niente. Nella totale disumanità, nella follia di una vita non-vita c'è ancora spazio per qualcosa di vero e umano. Lui chiude la porta, la accoglie, la fa entrare nella casa, finché sarà. Se ne frega del futuro, della scadenza, scioglie un dilemma a cui non era preparato e che nessuno dovrebbe mai essere chiamato a sciogliere. La ama come donna, la ama come persona vera, lì adesso, la umanizza, la rende diversa da ciò per cui era stata fatta, e lo fa in quel momento, nonostante tutto. La ama, ama quella parte di lei che sente, che trema, che piange, che non riesce a parlare.

La prima scena è di un amore che non è mai esistito ma avrebbe potuto e forse dovuto. La seconda è la scena di un amore impensabile tra uomo e macchina-umana che non avrebbe mai dovuto essere e invece è stato.



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